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In origine, ovvero eravamo nel  1700 in Europa,  era la tipica usanza di nobili e  ricchi per rompere la monotonia dei pranzi ufficiali: organizzare un pranzo in mezzo ai campi o lungo i fiumi. Allora i servitori imbandivano vere tavolate e come cibo veniva consumata la selvaggina appena cacciata. In seguito  è diventato per tutti il modo più simbolico, ma anche più gioioso, per aprire la bella stagione e pranzare in libertà. Da Pasqua fino almeno a Ferragosto quando con i primi temporali estivi si godono  gli ultimi giorni di vacanza dal lavoro, poi si riprende il tran tran post ferie. Sto parlando del pic nic (da pique, spiluzzicare, e nique,  cosa di poca importanza) ovvero la scampagnata fatta con amici e parenti   compresi i bambini “fuori porta”  cioè non molto lontano da dove si vive o  in un parco verde della città. Obiettivo: stare in compagnia divertendosi e mangiando.  Il pic nic, detto in dialetto anche “romanata” o “pranzo al sacco”, è facile ed economico. Gli ingredienti sono semplici e alla portata di tutti. Occorrono: tovaglia da stendere sul prato in modo da mangiare senza sedie, cibi adatti alla condivisione  tipo polpettine di carne o vegetali, insalate di cereali con legumi, frittate  e torte salate,  pane già affettato, uova sode, sottaceti, formaggi e salumi, verdura e frutta già pulite da mangiare con le mani.

Ebbene anche per questo clima informale che facilita le amicizie, il pic nic è molto popolare. Lo sa bene la regina Elisabetta d’Inghilterra che ne ha organizzato uno molto speciale per festeggiare i suoi 70 anni di regno. Queste le caratteristiche. Location: Buckingam Palace. Invitati: 12 mila ospiti estratti a sorte. Nel cestino ognuno ha trovato un impermeabile a poncho per la prevedibile pioggia e cinque portate tipiche della tradizione culinaria inglese: salmone scozzese affumicato;  zuppa fredda di pomodori con peperone, cetriolo condite con olio alla menta; insalata di pollo; Crumble di fragole; torta al cioccolato.

A parte questo esempio  regale,  il pic nic è alla portata di tutti ed è diventato occasione per  riflettere sul cibo a chilometro zero e sul non spreco alimentare nel rispetto della natura.  Come è avvenuto sulle colline bolognesi il 5 giugno 2017 per  la Giornata internazionale del pic nic per la decrescita. Qui bisognava portare piatti di ceramica, bicchieri di vetro, posate da casa per non fare troppa spazzatura e cucinare solo piatti locali.

Tra i tanti pic nic della mia vita ne ricordo uno coloratissimo nell’isola di Mauritius dove era stato creato un parco cittadino  con  tante Tamerici,  in fila come un pioppeto, a ridosso della scogliera sull’Oceano Indiano. Uno dei pochi spazi verdi destinato a  tutti,  lasciato libero dai grandi alberghi che hanno colonizzato ogni centimetro della costa mauriziana.  L’effetto paesaggistico era quanto mai strano, tipo natura addomesticata. Dettaglio poco  importante per le centinaia di persone  che intorno alle 12 a.m. hanno cominciato ad arrivare, stendere teli colorati a terra, tirar fuori thermos giganti, contenitori per cibo (ho sbirciato e ricordo soprattutto riso con avocado e alette di pollo fritte), piatti e bicchieri di latta alla maniera indiana. Contemporaneamente sono arrivati diversi carretti motorizzati, come  i nostri gelatai negli anni Sessanta,  anticipati da sonerie tipo trenino in arrivo e un profumo di zucchero filato ha invaso l’aria. Zucchero filato di vari colori, dal fucsia al verde,  che per  diverse ore fino al tramonto  ha fatto la gioia dei presenti. Zucchero filato colorato,  direi il piatto forte del pic nic domenicale a Mauritius.

Per non smentire il proverbio “paese che vai, pic nic che trovi”.

pubblicato in http://mondita.it/

Quando un amico mi ha detto  che a Cuba  avrei sicuramente mangiato “moros y cristianos”, ovvero riso bianco e fagioli neri, non avrei mai pensato che sarebbe stato il mio piatto quotidiano.  E invece è stato così dalla prima cena all’ultimo pranzo consumato a Varadero all’Esquina, una sorta di Trattoria all’Angoletto, come se ne trovano tante da noi: piene, a mezzogiorno, degli impiegati  pubblici nella loro pausa pranzo. Dunque “moros y cristianos”, un piatto unico realizzato con gli ingredienti del territorio, come nella cultura gastronomica mediterranea può essere la pasta cucinata con  vari condimenti.cuba25

Certo il nome la dice lunga del meticciato che si è creato nell’isola caraibica. Proprio a Cuba sono stati deportati i primi schiavi  provenienti dall’Africa per il lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. E sempre qui i neri africani hanno trovato i colonizzatori bianchi, portatori della schiavitù e della religione cattolica. Ecco qua, signori il piatto è pronto in tavola: moros y cristianos, neri come i fagioli, bianchi come il riso, insieme ma separati. Anche a noi è capitato di sceglierlo proprio la prima sera del nostro arrivo all’Havana nel ristorante dell’associazione sportiva di baseball  Los Nardos, che esiste dal 1907 e da allora è punto di riferimento degli Habaneri e del turismo caraibico. Noi facevamo eccezione tra i presenti,  ma non scalpore. E ci siamo adeguate alle usanze locali: fare la fila rispettando l’ordine di arrivo, scegliere nel menù i piatti tipici. Non solo riso e fagioli ma anche pollo, un altro piatto comune molto apprezzato in tutte le sue varianti.cuba 66

Da quando a Cuba si sono aperti al turismo, è stato dato il permesso di ospitare  nelle proprie case i turisti. Sono sorti così le case particolar, i nostri bed and breakfast, dove si può chiedere di avere anche del cibo cucinato, o i paladar cioè veri ristoranti che hanno come location  vecchie dimore coloniali o appartamenti con uno stile particolare e molto affascinanti. Anche questo fa parte del viaggio e alla domanda su come si mangia a Cuba, non si può rispondere senza dire dove si è mangiato perché molto spesso il piatto è quello e non si scappa. Ma la location fa la differenza. Così al Paladar La Guarida (un condominio sociale dove hanno girato il famoso film Freysa e Cioccolato) ci hanno servito in piatti di porcellana, anche se spaiati, il solito moros y cristianos e il pollo caramellato al miele. Cucinati in modo memorabile.  Come dire: qui a Cuba abbiamo poco, ma quello che abbiamo ha un gran valore.

 

La prima mappa degli artigiani e delle botteghe storiche nel cuore di Roma
Fortunato chi ha tempo da dedicare all’improvvisazione per decidere che fare. Oggi ad esempio mi sono dilettata andando in giro per zone di ROma che non conoscevo. L’occasione è stata Botteghiamo una bella ‘iniziativa che, come dice la parola (anche se non mi entusiasma), ci ha guidato in un tour alla scoperta dei rioni Ponte, Parione e Regola dove ci sono artigiani ancora attivi. Siamo entrati nelle botteghe per conoscere e ascoltare dalla lor voce l’arte di fare con le mani, trasformando materiali vari con pazienza e sapienza. Abbiamo così sentito da un doratore la difficoltà di maneggiare il sottilissimo foglio d’oro che teme la polvere e va maneggiato a porte chiuse, oppure il tappezziere che costruisce a mano di sana pianta poltrone e divani che vanno in America, o la “tappetaia” che mantiene la tradizione inaugurata nel 1860 di confezionare stuoie e tende con la fibra di cocco che provenie ancora oggi dall’ India e quella di agave dal Messico. E abbiamo visto la giovane appassionata di vetro soffiare per fare bolle trasparenti.  Poi tra un racconto e una poesia, soffermandoci a guardare i palazzi rinascimentali (tra cui in via del Governo vecchio quello occupato negli anni Settanta come Casa delle Donne)  tra i vicoli che una volta si inondavano dell’acqua del Tevere, siamo arrivati in piazza di San Salvatore in Lauro dove ci aspettavano altri artigiani, restauratori, costruttori di cappelli per abatjour, marmisti, vetrai, sarti e doratori, bevendo Chianti fresco offerto dagli organizzatori. Altra bella tradizione mantenuta in questo rione, una volta poverissimo e pieno di varia umanità.  COme raccontato nel libro “Credevamo nei miracoli”  scritto da Mario che è nato e vissuto qui tra via di Panico e via dei Coronari, a due passi da Castel Sant’Angelo.

“E’ primavera, svegliatevi bambine. Alle Cascine il primo sole fa il rubacuor!”. Cantava così la nonna Amalia, nata settimina nel 1889, che aveva allevato sette figli facendo la lavandaia. Ecco perché tutti la chiamavano la Marescialla, si era indurita e aveva preso un piglio da autoritaria. Ma quando nell’aria arrivava l’odore e il calore di marzo, si metteva a cantare. Unica concessione al suo sguardo duro. Io mi divertivo da matti con lei a cantare, complici della trasgressione primaverile che invitava a lasciarsi andare. Quando ero bambina avevo una casa su un albero e un giardino intorno. Poi i tempi sono cambiati, le città hanno stritolato il verde della campagna, o meglio lo hanno inglobato se non annullato tra le costruzioni. Dicono sia colpa dell’introduzione del cemento armato che ha spinto a costruire palazzi alti. Sarà, ma la voglia di alberi, di prati, di fiori è sempre più forte perché se ne sente il desiderio, il bisogno, per vivere meglio . Ecco perché nelle città sono nate tante iniziative dette di giardinaggio sovversivo: si adottano aiuole, si fanno bombe di semi, si circondano gli alberi che rischiano di essere potati alle radici, ci si ritrova nei cortili e li si coltiva a orti . E io, che non ho più un giardino né un orto sento, che è tempo di seminare .

Me lo ricorda il web con i messaggi dai vari giardinieri sparsi in tutta Italia. Allora seguo il consiglio delle Lezioni di giardinaggio Planetario avuto in una giornata d’inverno nel bel mezzo di uno spettacolo teatrale: giro con semi di girasole e semi di zucca in tasca e li sparpaglio ovunque io veda un poco di terra o una breccia dentro un muro.

Proprio oggi, 21 marzo, primo giorno di primavera.

 

“Questo è buono o mi fa bene?” quante volte lo sentiamo dire se abbiamo a tavola dei bambini. Storcono il naso soprattutto davanti alle verdure. Pochissimi amano l’insalata, quasi tutti odiano il minestrone. E allora si parte con i racconti in modo da farli arrivare in fondo del piatto. Uno dei racconti preferiti dai miei nipotini è quello del viaggio alla ricerca di specialità. Un bel viaggio è quello che mi ha portato, già un po’ di anni fa, a Cavour in Piemonte. Nel mese di novembre, se non sbaglio, in tutti i ristoranti del paese cucinano a base di mele. Mele come antipasto, mele nei primi piatti, mele che accompagnano le carni, dolci a base di mele e mele per frutta. Ma alla Locanda La posta, la specialità non sono solo le mele ma anche i clienti. In particolare si ritrovano lì, una volta l’anno, i “grassoni” ovvero persone che per amore del cibo avevano raggiunto i cento chili e più.

E alla faccia di tutte le diete, al loro appuntamento annuale si pesavano sulla grossa bilancia collocata all’ingresso della Posta. Poi si sedevano a tavola e mangiavano tutto quello che volevano. Si ripesavano alla fine del pasto e uno di loro, il più pesante, veniva incoronato il “grassone dell’anno”. Foto d’epoca alle pareti testimoniano ciò che dico. Andare a vedere se non ci credete.